Venerdì 4 novembre (festa dell'unità nazionale e delle forze armate), nel quadro dello sviluppo delle attività di educazione civica, incontreremo su due turni, a partire dalle ore 9, Emilio Quadrelli.
Ricercatore al Dipartimento di scienze antropologiche dell’Università di Genova, si occupa di storia ed etnografia del movimento operaio e delle lotte di liberazione, di tematiche relative alla criminalità e all’immigrazione e della trasformazione della forma guerra nella contemporaneità. Nelle sue numerose pubblicazioni, tanti ed interessanti sono gli spunti di riflessione e le chiavi di lettura per la nostra attualità; noi abbiamo scelto di affrontare il tema delle guerre del presente, secondo due assi di approfondimento: il rapporto crisi economica-guerra ed il modo in cui la forma guerra ha mutato la forma Stato nel corso del Novecento. Crisi, pace, guerra, Stato: parole che tutti usiamo spesso, ma che non sempre mettiamo in relazione. Seguono alcuni cenni di quanto sarà sviluppato nell’incontro …
Prima questione. Nella sua accezione etimologica crisi significa discontinuità, rottura di un equilibrio. Secondo la teoria liberista classica le crisi sono impossibili per il modo di produzione capitalistico: se si lasciasse fare alla “mano invisibile del mercato”, esso sarebbe sempre in equilibrio e si autoregolerebbe da solo senza ingenerare alcuna crisi. Le crisi tuttavia si presentano e spesso sfociano in guerre. Come spiegare questo fenomeno, allora?
Seconda questione. A differenza del passato, quando la prima cosa di cui si preoccupavano gli stati era la più completa pacificazione interna e la ricerca di una sostanziale adesione della popolazione alle logiche di guerra – vedi nello specifico quanto occorso anche in Italia durante la Prima guerra mondiale, di cui si commemora la “vittoria” proprio il 4 novembre – oggi, al contrario, guerra interna e guerra esterna sono continuamente intrecciate e gli stati tendono a combattere su entrambi i fronti. Ciò implica, di fatto, una radicale frattura tra stato e nazione, dove con nazione si intende popolazione, e il delinearsi di un fronte, per quanto di gradi e intensità diversi, che vede guerra esterna e guerra interna come un continuum. Dopo l’89, con la caduta del “Blocco sovietico”, in Occidente assistiamo alla scomparsa del nemico in quanto entità politica legittima. La sequela di guerre che hanno preso l’avvio dal 1991 in poi erano unite da un comune elemento: la dimensione impolitica dell’avversario di turno. Non per caso la stessa parola guerra, dal 1991 in poi, non è più stata pronunciata se non accompagnata da un qualche aggettivo (anche guerra umanitaria…). Da allora si afferma il nesso tra guerra esterna e guerra interna, la compenetrazione di militare e polizia; la stessa denominazione di “operazione speciale” usata dai Russi per giustificare la guerra attuale, prende chiaramente spunto dalle operazioni belliche della Nato dal 1991 in poi, cioè operazioni di polizia internazionale; questa espressione consente di comprendere appieno il modo in cui il conflitto è stato, prima agito, poi concettualizzato: infatti, mentre il militare ha di fronte a sé una cornice sostanzialmente esatta dei suoi compiti - annientare la forza del nemico e lasciare poi il compito conclusivo alla politica -, le operazioni di polizia non hanno mai termine, anche perché i loro confini sono difficilmente delineabili e si spostano sempre di più all’interno degli Stati (liberamente adattato da: Emilio Quadrelli, Il volto di Marte e le sue forme. Note su guerra asimmetrica e guerra simmetrica, articoli pubblicati su Carmilla https://www.carmillaonline.com/; periodico di letteratura, immaginario e cultura di opposizione).